L’altro giorno ho provato a postare sul mio account Facebook una considerazione.
Ho parlato dello scandalo di Cambridge Analytica, cioè della scoperta che il piccolo tastino che consente di entrare in vari servizi online attraverso il proprio account social, per risparmiare tempo, girava verso terzi una quantità spaventosa di dati personali. In maniera certamente aggressiva, tanto che a Palo Alto si sono affrettati a rassicurare gli utenti e a “tirarsi fuori”.
Ho spiegato alle mie cerchie di amici, che in realtà era abbastanza ovvio che a fronte di un servizio gratuito si commerciassero i dati, e che esiste un altro giochino che sta facendo incetta di informazioni. Sono quei piccoli sondaggi: “Quali amici ti vorrebbero sposare?”; “Chi ti vuole baciare?” da ricondividere sulla propria bacheca. Un giorno faranno finta di accorgersene per caso, con un buon accompagnamento di indignazione, ma il mercimonio di informazioni personali è attivo più che mai.
Quello che mi ha stupito, sono state le risposte: “Che se li tengano i miei dati. Se vogliono anche le foto di quello che mangio, facciano pure”. O ancora: “Dei nostri dati sicuramente non se ne fanno niente, li possono usare solo come soprammobili a raccogliere polvere”.
Quindi, nessuno se ne importa.
In realtà avrebbero anche ragione: Facebook è un servizio enorme, gigantesco, ed è anche giusto che con i nostri dati, che se ci vengono prelevati nessuno muore, diventino miliardari.
Ma il punto è: il rischio è veramente zero?
Assolutamente no, il rischio c’è, eccome.
Ognuno inscatolato nel suo mondo
Il problema sta nella combinazione di due elementi.
Il primo è la quantità, qualità e coerenza dei dati personali. Non sanno solamente chi siamo, ma sanno cosa pensiamo, cosa ci piace e non ci piace, a quali eventi partecipiamo, su cosa siamo d’accordo e su cosa litighiamo. A che orientamento politico apparteniamo, chi sosteniamo e chi critichiamo. Sono come un amico, o un familiare che conosce molto bene i nostri gusti.
Il secondo elemento è: Facebook può farci vedere quello che vuole. Può indirizzare gli argomenti della nostra bacheca, filtrare quello che dicono gli amici, collegarci e suggerirci gruppi di discussione. Può farci vedere solamente una parte della realtà.
Voi direte: ma mica mi faccio influenzare. Io vado a controllare anche fuori da Facebook.
Sarà, ma dal momento che esiste il fenomeno delle fake news, e che oltre il 90% di queste potrebbero essere scoperte solamente facendo una ricerca all’esterno di Facebook, evidentemente la stragrande maggioranza della gente non esce dal social.
Nessuno ha voglia di controllare, di verificare. Le informazioni giungono rapidamente, corredate da commenti con cui siamo d’accordo o in disaccordo, vogliamo partecipare subito alla discussione.
Non possiamo e non vogliamo controllare. Vogliamo esserci, quello è l’importante.
Per cui, se uniamo la profilazione dei nostri gusti, al filtraggio delle informazioni, esce fuori la possibilità di creare un mondo personalizzato e condizionato per spingerci ad aderire a qualcosa, ad una idea, ad una causa. Su Facebook tutti adorano sostenere delle cause.
Un esempio su me stesso: sono appassionato di storia dell’antica Roma. Facebook, vogliamo credere in modo del tutto ignaro, mi ha suggerito molto spesso dei gruppi di revisione storica, di riconsiderazione del fascismo, de “la storia la scrivono i vincitori”. Ho conosciuto persone a me affini che erano neofasciste convinte.
Se non avessi anni di studio alle spalle, probabilmente ora riterrei che il fascismo è il movimento politico più simile all’Impero Romano.
Questo è il vero pericolo: più dei dati, delle pubblicità mirate, delle catene di Sant’Antonio.
Essere in grado di fare la cosa più potente al mondo.
Inculcare delle opinioni, facendo credere alla gente che siano idee loro.