Punti chiave
Mentre a Roma continua il difficile dialogo tra Stati Uniti e Iran sul programma nucleare di Teheran, Israele intensifica le valutazioni su un possibile attacco mirato contro le infrastrutture atomiche iraniane. Secondo fonti israeliane e occidentali citate da Reuters, la leadership di Tel Aviv non ha mai escluso del tutto questa ipotesi, e anzi l’eventualità di una “azione limitata” potrebbe concretizzarsi entro l’estate. Il presidente americano Donald Trump ha chiarito al premier Benjamin Netanyahu che, almeno per ora, Washington non intende appoggiare un’operazione militare, ma Israele sembra pronta ad agire anche senza il sostegno diretto degli Stati Uniti.
Opzioni militari sul tavolo
Negli ultimi mesi, Israele ha sottoposto a Washington una serie di scenari operativi, che vanno dai bombardamenti aerei a operazioni di commando, con l’obiettivo di ritardare significativamente – anche di oltre un anno – lo sviluppo della capacità nucleare iraniana. A differenza dei piani passati, le opzioni attualmente considerate sarebbero di portata più ristretta, in modo da contenere i rischi di escalation e ridurre la necessità di appoggio logistico americano.
Fonti interne suggeriscono che l’intelligence israeliana sta monitorando costantemente la vulnerabilità dei siti iraniani come Natanz e Fordow. Tuttavia, le strutture sono fortemente fortificate nel sottosuolo e Israele non dispone delle bombe “bunker buster” necessarie per distruggerle completamente. Ciò fa ipotizzare un’operazione volta più a “guadagnare tempo” che a smantellare del tutto il programma atomico.
Le resistenze di Washington
La Casa Bianca, sia sotto la presidenza Trump che con l’amministrazione Biden, ha mantenuto una linea prudente, sostenendo che un attacco militare senza una strategia politica solida rischierebbe solo di rafforzare la posizione iraniana. Inoltre, fonti del Pentagono sottolineano che senza un coinvolgimento diretto degli USA, l’efficacia dell’azione sarebbe limitata e le conseguenze imprevedibili, specie se Teheran decidesse di rispondere colpendo obiettivi israeliani o americani nella regione.
Israele avrebbe anche chiesto garanzie sul supporto statunitense in caso di ritorsioni iraniane, soprattutto alla luce delle tensioni con gruppi alleati di Teheran come Hezbollah, ancora attivi al confine nord e già coinvolti in scontri a bassa intensità.
Diplomazia in stallo
Nonostante la retorica bellicosa, la diplomazia resta ufficialmente sul tavolo. A Roma è in programma un secondo round di colloqui tra delegazioni statunitensi e iraniane, ma il clima è teso. Il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi ha accusato Israele di sabotare ogni tentativo di accordo, ribadendo che Teheran non intende dotarsi di armi nucleari e chiedendo la rimozione immediata delle sanzioni come condizione per qualsiasi compromesso.
Da parte israeliana, Netanyahu continua a richiamarsi al “modello libico”, ovvero allo smantellamento totale del programma nucleare sotto verifica internazionale. Una posizione che l’Iran considera inaccettabile, vedendola come un’umiliazione strategica.
Escalation possibile nei prossimi mesi
Un alto funzionario israeliano ha dichiarato che “la finestra per agire si sta chiudendo”, lasciando intendere che Tel Aviv voglia colpire prima che Teheran possa ripristinare completamente le proprie difese o compiere significativi passi avanti verso la soglia nucleare.
In questo contesto, il rischio di un’escalation regionale resta elevato. Qualsiasi azione militare contro l’Iran potrebbe avere effetti a catena su tutto il Medio Oriente, coinvolgendo attori come Hezbollah, Hamas, le milizie sciite irachene e perfino le forze americane presenti nella regione.
In sintesi, Israele è pronta a colpire se riterrà che la diplomazia non offra risultati credibili. Ma ogni decisione, militare o diplomatica, si muove in un equilibrio precario tra deterrenza, alleanze e l’ombra concreta di una guerra su larga scala.