Punti chiave
La riforma UE del copyright ha scosso come un terremoto il mondo digitale: l’art. 11 che costringerebbe gli aggregatori di notizie a pagare i singoli giornali per poter prelevare i riassunti delle loro notizie, potrebbe portare i piccoli quotidiani a sparire da portali come Google News. Ancora più preoccupante l’art. 13 che, imponendo un filtro a tutti i contenuti inviati dagli utenti su portali come Youtube, rischia di diventare strumento di censura.
La comunità di internet si è notevolmente preoccupata, e piattaforme come Wikipedia, sono arrivate ad autocensurarsi per protestare contro la riforma. Mentre la discussione al parlamento europeo è stata rinviata, Alground ha contattato tre fra i più grandi esperti italiani di dinamiche e diritto sul web, per capire cosa potrà accadere in un prossimo futuro.
Dal Checco: definire meglio i dettagli, così com’è non è verosimile
“Per quanto riguarda l’art. 11 – inizia Paolo dal Checco, rinomato esperto d’informatica forense – la cosa in assoluto più importante è definire la modalità e la quantità del contenuto che potrà essere prelevato dagli aggregatori. Sarà definito come percentuale? come numero di caratteri o di righe? E’ un elemento fondamentale. A onor del vero, ritengo che già adesso se con il titolo, una piccola foto e pochissime righe il lettore non clicca sulla notizia, significa che quel lancio ha poco valore.
Altrimenti sentirebbe il bisogno di approfondire. Per le foto poi un buon compromesso sarebbe far visualizzare una immagine in miniatura e permettere di vederla interamente solo raggiungendo lo specifico sito.
Comunque, fino a che non esiste una definizione precisa non possiamo valutare l’impatto che potrà avere, anche se sono comunque i giornali più piccoli quelli a rischio.
Poca fiducia anche per l’art 13. “Qui – prosegue dal Checco – partiamo da una situazione per cui se io carico un contenuto che viola il copyright, e questa cosa viene segnalata, la piattaforma interviene rimuovendo il tutto senza particolari problemi. Solo nel caso in cui questo diventa una cosa ripetuta, allora partono delle sanzioni verso la struttura che ospita il contenuto. Immaginando un filtro che controlli preventivamente tutto il contenuto, dal momento che i filtri sbagliano, significherebbe che la piattaforma sarebbe passibile di multa alla prima violazione?
Il problema in questo caso non sarebbe la censura, sinceramente non ci credo molto, ma il fatto che le piattaforme dovrebbero dotarsi di sistemi sofisticati di filtri oppure pagare una massa di multe insostenibile. Oltre al problema tecnico si porrebbe una questione puramente economica. Detta così, non vedo questo filtro ai contenuti come qualcosa di concretizzabile su larga scala e in maniera preventiva.”
Tosi: principi ragionevoli, ma si rischiano effetti collaterali
“La questione è spinosissima – attacca invece l’Avv. Emilio Tosi, Professore di Diritto Privato a Milano Bicocca e socio fondatore del CLUSIT – e si conferma la difficoltà di fornire una risposta univoca perché il discorso può essere approcciato da diversi punti di vista, sia da quello squisitamente tecnico sia facendo delle valutazioni metagiuridiche di politica legislativa.
Ora, se si affronta da un punto di vista prettamente giuridico, il riconoscimento agli Editori di una garanzia in più rispetto a quelle già esistenti nelle norme sul diritto d’autore – la tipizzazione di un nuovo diritto connesso fermo restando il diritto dell’autore – può anche essere cosa ragionevole. Nel senso che effettivamente l’industria culturale digitale lamenta, a buon diritto, una perdita di valore – value gap – circa la realizzazione di contenuti digitali da parte degli editori e più in generale dei produttori di contenuti rispetto agli OTT, i grandi player delle reti di comunicazione elettronica.
Da questo punto di vista il principio ha una sua ragionevolezza, ma sta di fatto che la norma dell’articolo 11, così come è attualmente formulata, richiede qualche puntualizzazione e qualche riflessione in più al fine di evitare effetti distorsivi, non solo sotto il profilo concorrenziale ma anche della libera circolazione delle informazioni.”
“Anche perché stiamo parlando di una direttiva – precisa Tosi – e qui, se mi è consentito un rilievo critico, dal momento che disciplinare questo tema richiede una forte armonizzazione, lo strumento della Direttiva non è il più adatto. Avrei visto più opportuno applicare lo strumento giuridico del Regolamento, sulla falsa riga di quello che è stato fatto in altri settori come quello del data protection, che è uniforme e immediatamente vincolante per tutti gli Stati membri dell’Unione Europea.
Il Regolamento tende, infatti, ad eliminare – nei settori che richiedono marcata armonizzazione – le asimmetrie normative che invece la Direttiva non può escludere in sede di recepimento interno da parte degli Stati membri a maggior ragione in relazione a un testo, come nel caso di specie, dalla formulazione programmatica per clausole generali.
Con lo strumento della Direttiva le regole di recepimento – pur nei limiti stabiliti dalle clausole generali ivi contenute – possono però essere variamente declinate, e con certi margini di discrezionalità, da parte dei singoli stati. Questo costituisce effettivamente un rischio aggiuntivo considerata la possibile interferenza con diritti fondamentali quali la libertà di espressione e il diritto all’informazione.”
E sulla censura? “Per quanto riguarda il discorso della censura riconducibile all’obbligo di filtraggio dell’art.13, – rassicura Tosi – certamente la norma non prevede questo. Il rischio è piuttosto nella fase di concreta attuazione del precetto generale e, come spesso succede quando si procede all’estensione di norme generali come quelle del diritto comunitario, in fase di recepimento da parte dei singoli Stati: con l’attuale formulazione, troppo generica, non si possono escludere effetti collaterali indesiderati, come peraltro anche pubblicamente stigmatizzato dal Garante italiano per la Privacy Soro.
L’articolo 13, rispetto all’articolo 11, è senza dubbio molto più insidioso dal punto di vista della libertà di informazione e della libera circolazione delle idee. E’ più insidioso perché così come è attualmente formulato, ammesso e non concesso che questo sia il testo definitivo, potrebbe, quasi certamente, porre più di un problema in sede attuativa perché l’utilizzo corretto e preciso di queste tecnologie, atte a filtrare i contenuti digitali protetti dal diritto d’autore, è un esercizio che non è così scontato in concreto.
Per maggior precisione, è tecnicamente molto agevole quando si parla di tutelare contenuti audiovisivi o digitali, – conclude Tosi – un po’ più complesso quando si parla di proteggere semplici informazioni e notizie in genere, esercitando un controllo sugli snippet, tenendo conto del fatto che questo è un argomento spinosissimo e vi sarà una riflessione ancora molto lunga come dimostra il primo stop a Strasburgo della proposta di riforma e il rinvio a settembre per ulteriore discussione anche nella prospettiva di opportuni emendamenti e precisazioni del testo così come attualmente formulato.”
Bonomo: una presunzione di illegittimità contraria alla Costituzione
“La riforma UE sul copyright nasce dall’esigenza e dal condivisibile proposito – spiega ora l’Avv. Giovanni Bonomo, esperto in diritto delle nuove tecnologie – di adeguare il diritto d’autore all’ecosistema digitale, ma le soluzioni che propone sono controverse e poco credibili. Mi riferisco in particolare a due articoli che hanno suscitato accesi dibattiti e polemiche, l’art. 11 sulla protezione delle pubblicazioni di carattere giornalistico, e l’art. 13 sull’utilizzo di contenuti protetti da parte di prestatori di servizi della società dell’informazione.
In effetti le critiche a tale disegno di legge mi sembrano fondate laddove si voglia far pagare a chi pubblica articoli i diritti sulla pubblicazione anche dei relativi snippet. Sappiamo che queste anteprime di testo e grafiche compiano automaticamente all’atto di un “copia e incolla” di un link ipertesutale in un social network o in una qualsiasi piattaforma editoriale online. E’ una consuetudine per chi scriva e operi in Internet. Ora, prevedere un compenso per questi snippet, sarebbe come tassare le notizie e la libera informazione.
Senza contare che, rendendo difficile a un publisher, che può essere chiunque, non solo un giornalista professionista, far circolare i contenuti “di carattere giornalistico” in difetto di un accordo di volta in volta con l’aggregatore di notizie, si rende la vita difficile allo stesso editore, il quale, apparentemente beneficiato di un diritto al quale non potrebbe rinunciare, si vedrebbe ridimensionato nell’ospitare poche notizie e sempre meno vere e sempre più fake: dipenderà infatti dalla forza contrattuale di chi pubblica e dai compensi. C’è già chi prevede che saranno i molti milionari, disposti a pagare, a influenzare l’opinione pubblica.”
“Quanto all’art. 13, dal lunghissimo titolo, – ironizza Bonomo – si ripropone lo stesso problema: pretendere di regolamentare i rapporti tra il titolare dei diritti, per l’uso di materiale protetto, e il prestatori di servizi o aggregatori di notizie, significa filtrare i contenuti e ostacolare la libera circolazione delle informazioni. Voglio dire che applicare una tassa sull’informazione, perché tale è nella sostanza, per garantire agli editori un compenso, significa bloccare quella libera circolazione delle informazioni che è la base di tutto il sistema di Internet, dello User Generated Content e del Citizen Journalism.
Tanto meno è plausibile, parlando ora di come gli editori potranno esigere un tale compenso, il sistema che pare stiano escogitando: un upload filter informatico che impedirebbe agli utenti di caricare su social e piattaforme online varie materiale protetto oggetto di proprietà intellettuale. Anche il software più elaborato può individuare i duplicati e i plagi, ma non potrà distinguere le parodie, le perifrasi, le metafore, le satire e le critiche e in definitiva tutte quelle rielaborazioni creative e lecite di testi altrui.
Senza contare che un’inammissibile “presunzione di illegittimità” di fondo stride con la libertà di espressione presidiata dalla nota garanzia costituzionale (art. 21), sulla cui base ha fatto i primi passi, come sappiamo. la televisione privata in Italia. Appare paradossale quindi trovare l’espressione “società dell’informazione” nel titolo stesso di un articolo che la contraddice.”